“UN ARGOMENTO SCOMODO”
Note di regia di Caterina Panti Liberovici
“L'impresario in angustie” è una storia triste.
E' una storia triste e miserabile per chi, come me, ha l'ambizione – ingenua, forse, e al contempo arrogante –
di credere nel Teatro.
Di chi il Teatro lo fa combattendo la battaglia quotidiana della qualità.
Di chi applica al mestiere del Teatro la disciplina e l'onestà intellettuale.
Di chi è disposto, nel Teatro, a cercarsi e perdersi e sempre sperare di ritrovarsi.
Perché la storia de “L'impresario in angustie” ne racconta solo le miserie.
C'è un impresario, appunto, che riunisce una compagnia di artisti, per allestire una nuova produzione.
Oltre alle cantanti, ci sono un Maestro ed un Poeta che devono scrivere la musica e il testo dell'opera.
Il Poeta ha un abbozzo del primo atto, forse addirittura anche già del secondo.
Una volta riunito il gruppo, però, non riescono neanche a leggere il libretto.
Le critiche, i pregiudizi, gli interessi personali, le gelosie reciproche, la scarsezza di denaro unitamente alla mancanza di idealità artistica, distruggono il gruppo prima ancora di iniziare.
L'impresario, dopo aver subito l'umiliazione di minacce e consigli meschini, scappa. La compagnia si scioglie.
Il tema del 'Teatro nel Teatro' ha da sempre suscitato nel mondo dell'opera e della prosa, il fascino dell' autocelebrazione.
Nella stragrande maggioranza dei testi che appartengono a questa fecondissima tradizione letteraria,
la meraviglia della commedia nella commedia si compie, regalando un lieto fine:
per quanto complicato, disagevole e confusionario sia, il mondo del teatro si rinnova rappresentando se stesso e la speranza che sia possibile il continuare a farlo.
Ne “L'impresario in angustie”, no.
Eppure, paradossalmente, l'opera nella sua epoca riscuote un successo enorme: viene rappresentata in tutta Europa, tradotta in molte lingue, ma soprattutto abbondantemente rimaneggiata.
Nella maggioranza dei casi, viene usata come struttura-contenitore, aggiunti numeri musicali, ampliata, trasformata.
Quasi un desiderio unanime di raccontarci di più, di approfondire un aspetto drammaturgico (ante litteram) di un materiale narrativo così visceralmente autobiografico. Inevitabilmente, però, ci fa sorgere il dubbio che quest'opera, così com'è scritta, non riesca a bastare a se stessa: come si può celebrare, in teatro e col teatro,
la disfatta del teatro stesso?
Un argomento scomodo.
Si potrebbe scegliere una direzione scorrevole, quella della burla in costume, l'eterna parodia, seguire il flusso della storia per quella che è, dove noi, persone di teatro che la mettiamo in scena, ci descriviamo così,
come simpatici cialtroni.
E voi, che vi assistete, comodi in platea, potete riderne soddisfatti.
Ma, no, non si può. O meglio: io non posso.
La morale amara e spiazzante è la chiave di volta del processo drammaturgico.
E' il richiamo alla realtà di chi il teatro lo vive e lo fa ogni giorno ed ogni giorno lo vede morire un pochino;
la realtà disillusa di chi continua comunque a credere in un teatro etico e poetico.
Non ci sono dunque soluzioni, deus ex machina, un geniale ribaltamento di prospettiva, no.
E' solo il racconto dell' intrinseca scomodità di porsi delle domande. Noi, sul palco e voi, in platea.
Ad accompagnare la storia de “L'impresario in angustie” c'è la figura del Regista, un attore; che crede, che cerca, di poterlo mettere in scena secondo una nuova visione, dove la Vita – movimento, interpretazione- possa prendere il posto dell'Opera d'arte – immobile nel suo tempo-.
Il Regista (che crede, che cerca) argomenta con passione le sue teorie, con la certezza di coinvolgere le figure che incontra in un teatro abbandonato e polveroso: sono i fantasmi di un mondo logoro, ricoperto dalla polvere del tempo, erosi dalla tradizione a cui, però, disperatamente si aggrappano.
I fantasmi sono i personaggi dell'opera che, arroccati nei loro caratteri, divenuti ormai paranoie, non sono più in grado di immaginare un mondo, un modo nuovo e diverso.
La battaglia del Regista è forse persa già in partenza, eppure la combatte con la passione di un Cyrano:
“Voi che dite, non serve? Lo so, bella scoperta, perché battersi solo se la vittoria è certa?
Più bello quando inutile, tra scocchi di scintille. Chi sono tutti quelli? Ma siete mille e mille!
Ah, sì, vi riconosco, nemici miei in consessi, menzogna, codardia, doppiezza, compromesso, lo so che alla fin fine voi mi darete il matto, che importa, io mi batto, io mi batto, io mi batto! “
Il Regista perderà la sua direzione e le sue sicurezze, ma non la sua idealità.
Per tenersela stretta, per credere e cercare ancora e altrove, deve abbandonare lo spettacolo a se stesso.
La storia de “L'impresario in angustie” non può che compiersi così com'è.
Come nei secoli passati, anche oggi, quest'opera – che forse non basta a se stessa, ma appunto continua a compiersi – subisce un ennesimo rimaneggiamento drammaturgico: la musica di Cimarosa si affianca alla prosa di Pirandello, al pensiero di Strehler,
ai versi di Rostand e si frammenta tra le interruzioni della quotidianità di una prova di teatro.
Con la presunzione del disincanto, così contraddittoriamente connesso invece all'idealità, e senza soluzioni.
E' una storia irrisolta che pone domande, che ci fa sentire scomodi e insoddisfatti , noi sul palco, voi sulle vostre poltrone di platea.
E' proprio da qui, dalla scomodità e dall'insoddisfazione, che lo spettacolo inizia e finisce.
Con lo spiazzante controsenso di raccontare, in teatro e col teatro, la disfatta del teatro stesso.